PRIMA SQUADRA
Bremer: “Con la fascia o senza, alla Juventus devi lottare su ogni pallone. Non parlo molto, ma voglio essere un esempio”
Dal ruolo di vicecapitano alla crescita personale, Bremer si racconta a Small Talk sul canale YouTube della Juventus: aneddoti, sfide e orgoglio bianconero

Prosegue la chiacchierata di Bremer a Small Talk, il format disponibile sul canale YouTube ufficiale della Juventus. Dopo aver ripercorso l’episodio dello scontro con Openda e il conseguente infortunio, il difensore brasiliano ha continuato a raccontarsi, svelando aneddoti e dettagli della propria vita e del suo percorso in bianconero.
Le parole di Bremer
Sulla fascia di capitano: “il mister mi ha detto detto che sono vice capitano, sono orgoglioso di questo traguardo. È una cosa importantissima per me, però per me cambia poco. Io con la fascia o senza fascia devo lottare su ogni pallone, ogni partita per vincere, perché la Juve ti impone questo. Ma assolutamente sono orgoglioso di questo riconoscimento che il mister mi ha dato, siamo sulla strada giusta”.
Sul mood guerriero?: “Sì mi piace ma non troppo perché il troppo non va mai bene”.
Sei una persona estremamente educata?: “Mi piace parlare ma non troppo, non mi piace far vedere troppo, preferisco stare sempre nascosto”.
Come sei cresciuto?: “Noi brasiliani siamo un po’ poveri. Sono nato in un paese di 8 mila abitanti, mio papà ha una fattoria. Abitavo in città e durante le vacanze, andavo in fattoria. Sono nato lì, mi piaceva tanto. Oggi ho una fattoria lì che mio papà gestisce per me”.
Sul padre, ex calciatore: “E’ nato anche lui in un paese piccolo, la sua famiglia era benestante ed erano sei fratelli, e lui giocava a calcio a livello amatoriale. Poi i suoi genitori si sono separati ed è diventato più difficile perché non guadagnava abbastanza quindi ha dovuto smettere. Mia mamma era una professoressa. Lì mio padre ha iniziato a lavorare in città e ad andare in fattoria nel giorno libero. Anche noi aiutavamo mio padre quando eravamo a casa da scuola, ho tre fratelli. In campo era un centrocampista o un difensore ma non ha mai giocato ad alti livelli. In quel epoca nella mia città c’era un giocatore del Santos e lui mi ha dato una grossa mano. Mi diceva che tanti hanno il talento ma devi anche essere professionista, io sono cresciuto con questa mentalità”.
Sull’Italia:“Per noi sudamericani italia e Spagna sono i paesi migliori in cui abitare. Si sta bene, si mangia bene e si vive bene, a differenza dell’Inghilterra. C’è il mare. Quindi è perfetto”.
Sul calcio italiano: “Un bel calcio. In quegli anni la Serie A era come la Premier League oggi. Passavano sempre le azioni della Serie A. La Juventus, la Sampdoria, Ronaldo, Cafu, Adriano. I giocatori brasiliani forti erano tutti in Italia.
Sulla città di Torino: “Il mio approccio? Bello ma strano, è tanto diverso dal Brasile. Dalla cultura, al formato delle case. Mi piaceva perché sono arrivato in estate, era caldo come nel mio paesino in Brasile. Poi in inverno quando è arrivato il freddo ho capito che non era così facile”.
Come ti sei adattato: “La prima cosa devi imparare la lingua, io capisco bene e mi faccio capire. Poi devi adattarti alla cultura, alla città, cosa ti chiede il mister e il significato del club. Al Toro mi hanno portato una professoressa di italiano, ho fatto delle lezioni che mi hanno dato una mano. Poi ho imparato giocando ma il mio primo anno è stato difficile, il calcio europeo difensivamente è diverso. Poi piano piano sono andato e sono fiero di quello che sono ora”.
Da quando sei arrivato in Italia, fai più o meno lavoro fisico?: “Qui serve tanta forza fisica. Giocare al Toro è una cosa, quando giochi alla Juve un’altra. Quando giochi alla Juve giochi ogni tre giorn quindi è un altro sporti, al Toro hai una settimana per preparare la partita. Quando giochi ogni tre giorno, devi fare attenzione a tutto: all’alimentazione, al sonno. Ci sono tante esigenze, ogni anno devi mettere qualcosa in più altrimenti abbassi il livello”.
Sul numero 3? Ci credi?: “Un significato simbolico: ho sempre giocato con la 3 e quando sono arrivato qui ho sempre voluto la tre ma avrei voluto giocare con Chiellini. Quando sono arrivato qui l’ho chiamato e gli ho chiesto se potessi indossare la sua maglia numero tre. Lui mi ha detto di prenderla tranquillamente. Io cerco sempre di dare il mio massimo per meritarmi la maglia non solo perché è la numero tre ma perché gioco nella Juventus”.
Sull’infortunio: “A primo impatto ero arrabbiato, era inizio stagione e sapevo non sarebbe stato semplice. Dopo mi sono detto che dovevo guardare il positivo e come uscire meglio da questo infortunio. L’allenamento è come la partita, dopo l’infortunio ho imparato ancora di più: i grandi giocatori e i grandi atleti avevano mentalità vincente. Quindi devi fare così. La mia famiglia mi ha aiutato tanto, quando facevo una partita brutta mi chiudevo in camera e non volevo parlare a nessuno. Poi sono migliorato lentamente. Da tutto si trae insegnamento”.
Su Tudor: “Ci aiuta molto essendo un difensore. Poi siamo una bella squadra, vogliamo imparare tutti e questa è una buona base. Poi c’è il lavoro individuale”.
Sul ruolo di leader: “Mi sento un leader ma non sono uno che fuori dal campo parla tanto. MI piace la presenza, loro vedono cosa faccio io e voglio essere un esempio. Siamo un gruppo giovane e voglio aiutare i miei compagni. Gatti, Vlahovic e Locatelli sono dei leader”.